Al giorno d’oggi sembriamo tutti essere pervasi da un profondo senso di incertezza, dando per scontato praticamente ogni piccolo gesto, atto o pensiero.
Soffermarsi a riflettere è compito arduo quando si vive in una società succube di velocità e frenesia, dove chi riflette viene etichettato come overthinker.
Quella persona, invece, potrebbe proprio essere colei che fra un pensiero e l’altro, riesce a cogliere quei singoli elementi della vita propria e altrui, che hanno in sé la capacità di rendere quest’ultima una cornice raffinata, ricca di dettagli che possono trasformare ogni momento in un ricordo indimenticabile e prezioso.
Un soffio di vento che ci scompiglia i capelli scatenando una risata, uno sguardo sincero da un amico fedele, un sorriso improvviso da una persona sconosciuta che si vede per strada mentre si sta compiendo il proprio cammino, un abbraccio del buongiorno, un bacio della buonanotte, la condivisione di un bel momento con chi si sta bene ...
In un mondo dove fermarsi è impossibile, soffermarsi diviene fondamentale per poter cogliere, pur nella velocità, quei momenti che sembrano congelare il tempo, rallentarlo, soppesarlo e viverlo.
Eppure, proprio martedì mattina ho letto una notizia che mi ha fatta rabbrividire: “C’è il rischio che per il 2045 non saremo più in grado di fare figli” (Fonte: Temporal trends in sperm cunt, Human Reproduction Update).
Tra il 1973 e il 2011 gli spermatozoi del maschio occidentale sono calati del 59% e sono esponenzialmente aumentati problemi legati all’apparato genitale e, di conseguenza, innumerevoli sono le persone infertili.
L’autrice dello studio, Shanna Swan, all’interno del suo volume Cownt Down: come il mondo moderno minaccia il numero di spermatozoi, afferma “di questo passo entro il 2045 la maggioranza delle coppie dovrà ricorrere a tecniche di gravidanza assistita per riuscire ad avere figli”.
A cosa è dovuto tutto questo? In primo luogo, ad interferenti endocrini che impediscono al corpo di produrre testosterone ed estrogeni.
Ciò dimostra che i nostri corpi e le nostre menti stanno collassando producendo anche un depauperamento dell’anima da non sottovalutare.
Climi che si modificano radicalmente urlando a gran voce la sofferenza di un Pianeta resiliente ma non indistruttibile, sostanze nocive come bisfenolo e ftalati contenuti nelle plastiche che danneggiano interi ecosistemi, tanto da possedere la facoltà di determinare malformazioni dei feti riducendone le capacità riproduttive future.
Ci stiamo autodistruggendo...
Decidiamo di toglierci la vita perché non sappiamo viverla, rimanendo inerti e lasciando che gli eventi accadano, convincendoci che essi non possano essere modificati in quanto già pre-determinati da qualcosa o qualcuno che detiene il potere legittimo di agire come un marionettista.
Non apprezziamo ciò che abbiamo, né ciò che siamo, perciò scegliamo di lasciarci esistere.
Siamo portatori di innumerevoli difetti perfettibili e per questo cerchiamo di modificarci quanto più possibile per “aderire ai canoni correnti” fino ad eliminare, anche brutalmente, ogni aspetto del nostro corpo categorizzato, ormai, come “errore di fabbrica” inutilizzabile ... dimenticando di essere corporeità.
Sembra ... anzi sono convinta, che sempre più spesso abbiamo paura di Vivere e non di Morire.
Mi chiedo, dunque, se magari stiamo continuando a scegliere vie che favoriscono l’omeostasi di sistemi deleteri.
La velocità, spesso, sembra possedere la capacità intrinseca di poter far distogliere lo sguardo dal vero obiettivo. Ci si guarda allo specchio ogni mattina, ogni sera, ogni volta che si riesce a farlo. Si guarda egocentricamente il proprio riflesso sulle vetrine dei negozi quando ci si passa davanti. Lo si guarda anche, magari, cercando di evitare una pozzanghera incomprensibilmente nitida o semplicemente quando uno sguardo fugace “campeggia” pochi secondi sullo schermo nero in standby di quel cellulare che, posto costantemente sul palmo della mano di ognuno di noi come fosse un prolungamento, la annichilisce silenziosamente. Ci si guarda sì, senza soffermarsi troppo ad osservare e quando raramente lo si fa, si riesce a contemplare solo ciò che si crede ritragga, come detto, un errore di fabbrica.
Un pelo di troppo, un chilo di troppo, una lacrima di troppo, un sorriso di troppo ... e poi? Per caso anche una vita di troppo?
La verità è che, forse, ci si sofferma, ma così poco e di sfuggita da non riuscire a cogliere tutti quei particolari che rendono ogni persona ciò che è.
A volte, forse, bisognerebbe affidarsi alle sensazioni e non agli occhi. A volte, forse, occorrerebbe ascoltare ciò che di Altro vive al proprio interno e che merita di essere espresso.
Come molti, soprattutto in questo periodo di pandemia causato dal Covid-19, mi sento un’onda del mare.
Un’onda di gravità creata dall’interfaccia tra vento ed acqua.
Una di quelle onde che incontrando un ostacolo si innalza e raggiunge altezze ragguardevoli ... ma che come tutte le onde prima o poi si frange dissipando energia e perdendo velocità a causa dell’attrito con il fondale.
Ma non tutta l’energia si disperde. Quella rimanente si conserva per far crescere l’onda generata in ampiezza, nelle ultime decine di metratura prima della linea costiera.
Ecco, è lì che in verità quell’onda, quale sono, riprende vita.
Vi ricordo il mio mantra:
Parlare sempre. Arrendersi mai.
Combattere, non mollare mai la presa.
Avere un obiettivo e perseguirlo.
-Giulia, Akali Pavan
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