𝑼𝒏𝒂 𝒕𝒆𝒔𝒕𝒊𝒎𝒐𝒏𝒊𝒂𝒏𝒛𝒂 𝒑𝒆𝒓 𝒑𝒓𝒐𝒗𝒂𝒓𝒆 𝒂 𝒄𝒐𝒎𝒑𝒓𝒆𝒏𝒅𝒆𝒓𝒆 𝒆𝒅 𝒊𝒏𝒕𝒆𝒏𝒅𝒆𝒓𝒆 𝒊 𝑫𝒊𝒔𝒕𝒖𝒓𝒃𝒊 𝒅𝒆𝒍 𝑪𝒐𝒎𝒑𝒐𝒓𝒕𝒂𝒎𝒆𝒏𝒕𝒐 𝑨𝒍𝒊𝒎𝒆𝒏𝒕𝒂𝒓𝒆
Ciao a tutti. Mi presento.
Mi chiamo Giulia Pavan. Ho 21 anni e sono una ragazza diplomata come ballerina, insegnante e coreografa professionista, laureata in Scienze dell’Educazione (EduForm) come Educatrice e Formatrice ed attualmente, anche una studentessa che sta per laurearsi in Scienze Pedagogiche.
Oltre a questo, sono una delle innumerevoli guerriere che ha scelto di vivere piuttosto che sopravvivere dopo ben sette anni di Anoressia, una malattia mentale, che quando diventa evidente sul corpo, è piuttosto difficile da sanare.
Quel corpicino striminzito di una me del 2015 rappresenta una ballerina adolescente che non si sentiva “abbastanza”.
A colazione, pranzo e cena, anziché di cibo, mi nutrivo a fatica di sentimenti negativi, che letteralmente si bloccavano durante la deglutizione, creando un nodo alla gola che inibiva ancora di più lo stimolo della fame, ormai inesistente.
Ad accompagnare le mie tristi giornate c’erano quelle che io identifico con l’acronimo “RAPOD”:
RABBIA, così tanta da oscurare la mia capacità di pensiero critico;
ANGOSCIA, così profonda da riuscire a farmi rinchiudere in un corpo ormai percepito come estraneo;
PAURA, così ineffabile da indurmi a costruire solidi muri attorno a ciò che era rimasto di me;
OPPRESSIONE, così schiacciante da soffocare ogni residuale barlume di vita;
DOLORE, così pungente interiormente, da divenire tagliente esteriormente.
Mi ero murata viva tra emozioni e sentimenti.
Avevo creato la mia gabbia. Non una gabbia qualsiasi, bensì una di quelle costrittive e asfissianti in cui vi è solo un’uscita di emergenza, dotata di un segnale luminoso verde che ne indica l’esistenza, ma che purtroppo non riesci a vedere a causa del tuo “amico” Buio che ti avvolge in un abbraccio materno e delle vocine nella tua testa che ripetono incessantemente di sostare per un tempo illimitato in quel luogo, l’unico in cui potrai sentirti protetta ed accettata.
Quando sei anoressica, tutti ti dicono “mangia di più”, “ma come fai a non toccare cibo”, “smettila di fare la ragazzina”, “beata te che hai problemi del genere ... io anoressica in un’altra vita” ... e potrei continuare per ore.
Le parole feriscono, a volte più dei gesti.
Siamo tanto superficiali in questo mondo ed apriamo la bocca a sproposito fin troppo spesso.
Solo chi ci è passato sa cosa si prova e conosce quante e quali conseguenze comportano i Disturbi del Comportamento Alimentare.
Solo chi perde se stesso sa quanto potente sia quella bomba carica di sentimenti, pronta ad esplodere, anche solo dopo una singola parola, atteggiamento o azione “fuori posto” … “inesatta”.
Si ha paura di sbagliare, di non essere abbastanza, di essere troppo grassi, troppo magri, troppo bassi, troppo alti, troppo euforici o troppo silenziosi, troppo buoni o insensibili. Si ha paura di essere “troppo” o anche “di troppo” e la cosa più assurda è che non si ha più il terrore di morire, ma di vivere.
Tentiamo di sopravvivere in un mondo dove regnano la passività, l’arroganza, l’individualità, il pregiudizio, l’invidia, la mancanza ma anche l’eccesso.
Vogliamo tutto e subito e ci sentiamo, in verità, “fuori” dal mondo, asociali. Ci sembra di non poter parlare ed infatti smettiamo di farlo, per paura di essere giudicati.
E invece la forza risiede proprio nel parlarne, nel combattere per tentare di districare quello che viene etichettato come un “problema” banale … così “sciocco” da farti desiderare, però, di non esistere ed abbracciare finalmente la vita, che per quanto tortuosa, potrebbe svelarsi come un qualcosa di decisamente straordinario.
Si smette di parlare perché si pensa che le persone abbiano perso la capacità di saper ascoltare.
Questa vita, frenetica e veloce, ci ha fatto per caso dimenticare l’importanza del dialogo?
Il silenzio, a volte, può essere sintomo di un profondo disagio interiore, che necessiterebbe di essere espresso e quindi elaborato e successivamente superato. Chiedete aiuto. Urlate se ritenete che possa essere una valvola di sfogo. Ma non tenetevi tutto dentro.
Le emozioni inespresse non muoiono mai. Vengono sepolte vive. Se dovessero emergere in seguito ad un qualsiasi evento, lo farebbero nel peggiore dei modi.
Per la società attuale, il corpo, nonché l’involucro che consente ad ognuno di noi di esistere in questo mondo, sembra simboleggiare l’unica cosa che conta. Sì, esatto, proprio una “cosa”, un oggetto, un mezzo utilitaristico, spendibile come il denaro.
Spesso sentiamo ripetere, “l’aspetto è tutto” ... “è il primo impatto con l’altro che conta” ... perché quello che ci interessa è ciò che si presenta esteriormente all’altro, il quale a sua volta, consciamente o inconsciamente, giudica.
Chi osserva l’interno è raro.
È difficile tenere conto della corporeità, perché spesso non si sa nemmeno cosa indichi questa accezione.
È importante “avere” un corpo, ma anche “essere” un corpo.
L’esterno è l’espressione dell’interno.
Non dimentichiamo mai di prenderci cura del secondo, perché esso raffigura, a mio avviso, l’unica vera carta d’identità dell’uomo in quanto uomo e dunque, di un essere che non è solo soggetto o individuo, ma persona.
Il corpo non può essere il primo fine. Esso dovrebbe rappresentare il mezzo che permette all’uno di incontrare l’altro per intenderlo nella sua forma prima – come ci ricorda Pirandello – e non cristallizzarlo in forme seconde che non gli appartengono.
Arrivati a questo punto, vi presento la ragazza a destra della foto.
Potete vedere una me cambiata del 2021, una ballerina adulta, una donna che con tutta la sua esperienza addosso, tenta in tutti i modi di realizzare i propri sogni.
È tutto “rosa e fiori” ora? Assolutamente no. Questa Patologia mi ha accompagnata per sette lunghi anni e con i danni che ha causato, combatto ogni giorno: amenorrea, piccole incertezze o paure che riemergono in situazioni specifiche ... per non parlare delle “nuove dinamiche” che mi hanno vista coinvolta, le quali richiedono, ancora una volta, di lottare con ogni singolo nervo, muscolo, osso, sentimento o emozione di cui sono composta.
Ma una cosa è certa: raggiungerò i miei obiettivi, sarò la ballerina che sogno sin dall’età di tre anni e mezzo, concluderò l’Università, continuerò la mia campagna di sensibilizzazione verso queste tematiche sfruttando tutte le risorse a mia disposizione, con l’intento di aiutare sia le persone che soffrono che tutti coloro che si trovano nella condizione di doverle affiancare.
Questa è la vita che desidero.
Ho dato forma ad una specie di mantra che ripeto a me stessa ogni giorno e che condivido affinché chiunque voglia fruirne, possa farlo:
Parlare sempre. Arrendersi mai.
Combattere, non mollare la presa.
Avere un obiettivo e perseguirlo.
Ah, quasi dimenticavo, nel momento in cui ho davvero sentito nel profondo di aver “superato” la Malattia – con le quali conseguenze e dispercezioni derivanti, come detto, dovrò convivere sempre – ho fatto imprimere sulla superficie del mio avambraccio interno destro la parola Resilient accompagnata da un Fiocchetto Lilla, simbolo della battaglia contro i DCA e del ricordo in onore di chi non ce l’ha fatta. Inoltre, il mio Comune di residenza ha accettato la richiesta di aggiungere, previa virgola di separazione dal mio nome di nascita Giulia così da non dover modificare tutti i documenti, un secondo nome all’anagrafe che mi rappresentasse davvero. Akali, questo l’appellativo di origine canadese che ho scelto. Significa “luce nel buio”, “affamata di luce”, “pugno di luce nell’ombra” e la mia comunità di appartenenza ha imparato, pian piano, a identificarmi in questo modo.
Abbiate la forza di abbattere i muri che avete costruito, non potete sapere cosa vi è oltre di essi ... magari imparerete a nutrirvi di vita.
-Giulia, Akali Pavan
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